30 anni fa perdeva la vita in un terribile incidente d'auto Gaetano Scirea. 30 anni fa tra le fiamme di una FIAT 125 sulla via del ritorno a Varsavia da una partita del semisconosciuto Gornik Zabrze, avversario in coppa UEFA della Juventus che Scirea andò a visionare in quanto secondo di mister Dino Zoff, non se ne andava solo quello che - secondo la FIFA e gran parte di chi lo ha visto giocare - è stato uno dei massimi interpreti del ruolo del libero nella storia del calcio. Di più. Se ne andava uno dei massimi interpreti del ruolo del calciatore. Del ruolo dello sportivo. Del ruolo dell'uomo.
Gaetano Scirea è uno di quei personaggi che sono ricordati al di là di stemmi, colori, maglie e bandiere. Forse anche al di là dello sport che praticava.
Gaetano Scirea era un uomo, prima che un calciatore. Gaetano Scirea sapeva di essere portato naturalmente per il calcio ma non per questo si risparmiava, anzi si allenava più duramente di tutti, per sfruttare al massimo le sue qualità. Gaetano Scirea sapeva anche di non essere arrivato dove era solo con il suo, di sacrificio. Non dimenticava le sue origini, il padre siciliano e la madre lombarda impiegati della Pirelli, l'oratorio della chiesa di Cinisello Balsamo, dove era nato e cresciuto.
Per Gaetano Scirea l'umiltà era la prima regola di vita. E umiltà significava anche rispetto.
Rispetto per gli avversari, l'arbitro, i compagni, l'allenatore, la società.
0 cartellini in tutta la carriera. 0 proteste. E non solo.
Dopo la vittoria dello scudetto 1974-75 andò a festeggiare in discoteca con tutta la squadra della Juventus, e la mattina seguente ancora con l'abito elegante si diresse in edicola per comprare il giornale che celebrava il trionfo. Ma l'edicola di fiducia era vicina alla fermata dell'autobus che portava gli operai alla FIAT. Decise quindi di rinunciare al giornale, per non offendere gli operai che alle 6 di mattina non tornavano dalla discoteca ma andavano a lavorare.
Quando si trasferì a Torino, acquistato dalla Juventus per un miliardo, Mastropasqua come contropartita e tre sacchetti di riso, prese un appartamento trovato in svendita. Ma non se ne approfittò. Anzi. Prese il blocco degli assegni e ne porse al proprietario uno da 20 milioni.
Umiltà per Gaetano Scirea significava anche generosità.
Ma l'umiltà di Scirea stava anche nel sentirsi una persona normalissima, senza essere soffocato dalla celebrità. Per sposarsi con Mariella tornò a Cinisello, e lì fece battezzare da don Gianni Minetti il figlio Riccardo. Lì fu anche celebrato il suo funerale e ora riposa la sua salma.
Nel 1987, ormai alla fine della sua straordinaria carriera, volle prendere la maturità. E ci riuscì, con un tema di italiano che impiegò sei ore a scrivere, impegnandosi a fondo come se quel diploma valesse più dei 15 trofei fin'allora conquistati, più della Coppa delle Coppe, della Supercoppa europea, più della Coppa UEFA, più della Coppa dei Campioni, più del Mondiale dell'82. Perché forse per lui era così.
Perché l'ideale sportivo di Scirea non era quello del divo, ma quello dell'esempio, non di quello che tira gli altri dietro di sé, ma quello che li sospinge da dietro, come faceva lui da ultimo uomo prima del portiere.
Qualche volta aveva avuto il coraggio di spingersi fino in attacco, lui che aveva giocato in ogni ruolo partendo proprio come punta, ma aveva sempre chiesto il permesso al portiere. Come quella volta che Zoff lo lasciò andare verso l'area della Germania nella finale del mondiale '82, sull'1-0. E lui fece l'assist per il 2-0 di Tardelli.
Avrebbe tanto da dire Scirea ai calciatori di oggi, che spesso fuori dal campo si dissolvono o si lasciano andare agli eccessi. Avrebbe da insegnarli l'umiltà, il sacrificio, la generosità, il rispetto. Ma soprattutto lui, che a 9 anni palleggiava con entrambi i piedi contro un muretto mentre masticava un panino, che a neanche 20 neutralizzò Gigi Riva all'esordio con l'Atalanta, che è ancora (per poco) recordman di presenze con la maglia bianconera, primo giocatore a vincere tutte le coppe europee, senza nulla da invidiare ai più grandi top-player (veri o montati) di oggi, avrebbe da dirgli che è importante, anzi fondamentale, essere prima uomini e poi calciatori.
Forse non lo avrebbe neanche detto, era uno di poche parole, lo avrebbe dimostrato, come ha fatto per tutti i 36 anni della sua breve vita, interrotta bruscamente 30 anni fa da un tremendo incidente.
Come disse quel nefasto 3 Settembre dell'89 Giampiero Boniperti: "Perdiami un grande campione, ma ancora di più: un grande uomo"...
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